Giglio Reduzzi
Fare le cose a metà
Aggiornamento: 12 gen 2019
Fare le cose a metà è la specialità di noi italiani.
Iniziamo a costruire una strada e poi la lasciamo incompiuta, perché ci accorgiamo che non abbiamo i soldi per finirla.
Anche quando facevamo sbarcare migliaia di migranti, li accompagnavamo in un centro di accoglienza e poi ci disinteressavamo completamente di loro, come se il nostro lavoro fosse finito.
E, a quanto pare, continuiamo a pensarla alla stessa maniera.
Non ci rendiamo conto che consentire ad un migrante senza documenti di sbarcare è solo il primo passo di un itinerario che comporta tutta una serie di passi ulteriori.
Il primo dei quali deve necessariamente comprendere un breve periodo di custodia forzata, onde evitare, come successo per quelli scesi dalla nave Diciotti, che il soggetto scappi.
Poi, oltre ai medici che lo visitino, ci vuole un team di poliglotti per farsi dire come si chiama, quanti anni ha, da dove viene e perché scappa.
Infine serve un’autorità che, in base ai dati acquisiti, decida subito, non dopo mesi, se rimpatriare il soggetto oppure tenerlo.
Nel primo caso serve una macchina che lo porti all’aeroporto; nel secondo una macchina che lo porti ad un campo profughi per il tempo necessario a trovargli una casa, un lavoro ed una tessera sanitaria.
Il che vuol dire ovviamente avere pronto almeno il campo profughi con le necessarie dotazioni (dormitori, servizi igienici, scuole, ecc.).
Ecco noi in Italia siamo attrezzati solo per lo sbarco.
Già al secondo step (quello dell’identificazione), entriamo in crisi, perché abbiamo sì un folto gruppo di esaminatori, ma nessuno di loro parla una lingua diversa dall’italiano.
Sono stati assunti, senza averne i requisiti, perché così portano a casa uno stipendio ed il leader politico locale è contento.
Degli altri momenti procedurali non ce ne curiamo.
Il nostro atteggiamento mentale è: Qualche santo provvederà.