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Giù le mani da Roncalli!

Aggiornamento: 7 mag 2021


N.B. Per ragioni di spazio viene omessa l'Appendice.

La versione completa è disponibile come e-book.


Per trovare traccia delle antiche comunità cattoliche italiane conviene andare nel Lombardo-Veneto e, segnatamente, nella striscia di terra che va dalla provincia di Bergamo a quella di Belluno.

Non è un caso che qui abbiano visto la luce gli ultimi tre Papi italiani (Roncalli, Montini e Luciani, nati rispettivamente a Sotto il Monte, Concesio e Canale d’Agordo) e che qui abbia scelto di vivere il maggiore scrittore cattolico italiano, Vittorio Messori (Desenzano del Garda).

Per cui quando, tra non molti anni, le aziende turistiche organizzeranno delle visite ai siti dove una volta vivevano fiorenti comunità cattoliche (come già fanno in America per le comunità Amish), esse non dovranno costringere i loro clienti a compiere faticose trasferte, perché potranno concentrare i loro tour in una manciata di chilometri.

Dopo, naturalmente, averli portati in visita alla Città del Vaticano ed alle Catacombe di S. Callisto, come già fecero con me quindicenne.

La puntata sul ridotto lombardo-veneto diventerà la variante facoltativa, ma coerente, della visita alle catacombe.

Ovviamente la previsione qui delineata (e che a taluni potrà sembrare pessimistica) nasce dall’ipotesi che anche il cattolicesimo, al pari delle altre confessioni cristiane (escluso, per ora, il cristianesimo ortodosso) sia in procinto di scomparire.

Vuoi per autodistruzione, vuoi per sottomissione all’Islam, che rappresenta l’unico credo in espansione nel nostro continente, e che, per incredibile che possa sembrare, gode dell’appoggio dell’attuale Papa.

I cattolici che si occupano di religione ai vari livelli -dai teologi di professione (alla Enrico Maria Radaelli e Giovanni Cavalcoli), ai divulgatori (alla Antonio Socci e Aldo Maria Valli), ai semplici fedeli (come me)- concordano sulla decadenza, ma si dividono su quando esattamente essa sia iniziata.

(A negare l’esistenza della crisi sono rimasti in pochi, i quali forse scambiano la realtà per pia illusione.)

Infatti, accanto a chi attribuisce la colpa all’attuale Pontefice, c’è chi assegna la responsabilità al Concilio Vaticano II e, più o meno implicitamente, a chi lo ha indetto, cioè a Papa Roncalli.

Purtroppo tra coloro che danno la colpa al Papa Buono ci sono fior di teologi, per cui quelli che invece scagliano le loro frecce solo su Papa Francesco, pur essendo più numerosi, hanno una bella gatta da pelare.

Io, per il poco che conta, appartengo a questo secondo gruppo, che però ha il pregio di annoverare tra le sue fila anche scrittori di successo come Vittorio Messori.

Almeno così mi par di capire.

Ma mentre il cambio di paradigma attuato dal papa attuale (basti pensare alla sua politica pro immigrati, alla vicenda del Pachamama ed al documento di Abu Dhabi) è sotto gli occhi di tutti, e quindi accusare papa Francesco è compito relativamente semplice anche per uno sprovveduto come me, difendere il Concilio Vaticano II è molto più complicato.

Ma ci provo lo stesso.


Una delle accuse che viene più frequentemente rivolta al Concilio Vaticano II (CVII) è quella di aver emesso dei

semplici decreti a carattere pastorale e di non aver fatto nulla sul più rilevante piano dottrinale.

Ebbene a me sembra che, almeno su questo punto, la risposta dovrebbe essere abbastanza semplice: il CVII non ha detto nulla, perché non c’era più nulla da dire.

Tutto (forse anche troppo) era stato già detto nei concili precedenti.

Per cui si è ritenuto che all’ultimo concilio spettasse solo il compito di emettere, con linguaggio aggiornato ai tempi, dei decreti che in politica chiameremmo attuativi ed in teologia si chiamiamo pastorali.

Il card. Giacomo Biffi (di venerata memoria) dice chiaramente che l’intenzione “dichiarata era quella di mettere a tema … lo studio dei modi migliori e dei mezzi più efficaci di raggiungere il cuore dell’uomo, senza per questo sminuire la positiva considerazione per il tradizionale magistero della Chiesa.”

Certo colpisce che, mentre al CVII si fanno le pulci, su tutti i precedenti si tenda a chiudere un occhio, qualche volta anche due.

Per esempio si dice che, per essere valido, un Concilio debba essere convocato da un Papa ed avere carattere di universalità.

Ci si dimentica di ammettere che i Concili di Nicea e di Costantinopoli non avevano nessuno di questi due requisiti.

Infatti, oltre a non essere stati convocati da papi, od altra autorità religiosa equivalente, le loro (peraltro rissose) riunioni non videro la partecipazione di tutti e cinque i patriarcati esistenti all’epoca (Roma, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Bisanzio.)

E dire che quei concili ebbero molto più che un carattere dottrinario: essi ebbero quel carattere fondativo senza il quale ora non saremmo qui a parlare di religione cristiana.

Cosa decretarono di tanto importante i due summenzionati concili?

Il primo, quello di Nicea (anno 325), introdusse nientemeno che il dogma trinitario, tuttora alla base del nostro credo (seppur tra mille scossoni).

Il secondo, quello di Costantinopoli (381), decretò la natura divina di Cristo e, come logica conseguenza, il carattere eretico del movimento ariano.

Quanto poi ai personaggi che indissero quei concili (Costantino e Teodosio), non mi meraviglia che delle loro gesta sia stata tramandata una versione molto edulcorata, perché siamo di fronte ad autentici criminali.

Per non perdere il filo del discorso, relego all’Appendice il profilo di questi personaggi.

Non posso tuttavia esimermi, a proposito del dogma trinitario, dal ricordare che l’imperatore Costantino veniva da una cultura decisamente politeista, quale era quella romana.

Pertanto l’idea che Dio dovesse essere dichiarato “uno ma anche trino” deve essergli apparsa come un felice compromesso tra la vecchia e la nuova religione, piuttosto che la sintesi del dibattito congressuale da lui organizzato e che, con molta condiscendenza, viene definito “Concilio”.

Sempre a proposito del dogma trinitario, ho parlato di “scossoni”, perché non posso dimenticare che alcuni teologi moderni, tipo Michele Schmaus (ben noto al papa emerito che ne fu allievo) lo definiscono frutto di “estrema sistematicità”, mentre altri parlano della trinità come “modi distinti di sussistenza” (Karl Rahner).

Senza parlare dei teologi antichi, tipo Sabellio, Noeto e Prassea, le cui posizioni “unitarie” furono spazzate via dai Concili di Nicea e Costantinopoli, insieme a quelle di Ario.

(Annoto, a mero titolo di curiosità, che nessuno di questi personaggi appartiene a quell’ambiente romano che il tempo ci ha abituati a considerare come il centro del Cristianesimo, perché due di loro erano di origine libica e gli altri due di origine greco-turca.

Ed a questo proposito è difficile sottrarsi all’amara constatazione che oggi, sia in Nord Africa sia in Medio Oriente, non è rimasto più nulla del fervore cristiano di cui le scuole filosofiche di Alessandria ed Antiochia erano eloquente espressione.)


Ma torniamo al Concilio Vaticano II.

Un’altra critica corrente è che esso abbia dato la stura, più o meno consapevolmente, ad una serie di posizioni contrarie alla tradizione.

Può essere, ma io mi sentirei di escludere che:

1. Si possa parlare di consapevolezza e che

2. I fedeli abbiano notato alcuna significativa deviazione dalla tradizione, o cambio di paradigma (come si usa dire) sino all’elezione, nel 2013, di Papa Francesco.

Il secondo punto essendo molto più importante del primo, perché quel che conta, in un messaggio, è quanto di esso viene recepito dai destinatari, cioè dai fedeli.

E, sotto questo profilo, non c’è dubbio che i fedeli hanno cominciato a disertare le chiese solo con l’arrivo dell’attuale Papa, per effetto della sua infatuazione per l’Islam e delle sue eterodosse posizioni in materia di flussi migratori, relativismo religioso, ecologia, ecc…più quelle che sembrano essersi perse per strada (comunione ai divorziati, preti sposati).

Tant’è vero che Papa Wojtyla, che pure veniva da una chiesa ultraconservatrice come quella polacca, non si è mai lamentato della situazione lasciatagli in eredità dal CVII.

Evidentemente non vi ha trovato traccia di pericolose innovazioni.

Come ha detto chiaramente il card Biffi:

“occorre distinguere con ogni cura l’evento conciliare dal clima ecclesiale che ne è seguito. Sono due fenomeni diversi ed esigono un apprezzamento differenziato. Il postconcilio deriva certo storicamente dall’assise del Vaticano II….., ma si connota altresì di un’alterità inattesa nei confronti dell’evento che l’ha originato. Il Concilio non si identifica affatto con il postconcilio: il primo <a priori> va accolto con totale cordialità da parte di chi vuol continuare a dirsi cattolico; il secondo esige di essere analizzato e giudicato alla luce del primo e anzi alla luce di tutta la Rivelazione divina come è custodita indefettibilmente dalla Chiesa.”

Insomma non è detto, secondo il card. Biffi (ed anche secondo me) che, siccome del Concilio a volte si è (o si sarebbe) abusato, allora non bisognava indirlo.

Rimane il fatto che, nella percezione del fedele, nessun abuso è stato fatto dalla gerarchia nel periodo postconciliare, a meno che tale periodo venga arbitrariamente allungato fino a comprendere l’attuale papato.

Tutt’al più, esso potrebbe aver fatto accapigliare tra loro i teologi, ma di questo….chi se ne frega!

L’importante è che i fedeli non abbiano ricevuto motivo di scandalo o anche solo di turbamento.


Chi scrive ha avuto il singolare privilegio di conoscere da vicino sia Papa Roncalli sia il Card. Loris Capovilla che il primo ebbe come segretario personale, prima come patriarca di Venezia e poi come pontefice.

Con Papa Roncalli ho trascorso solo poche ore, compresa però una lunga passeggiata nei giardini di Castel Gandolfo, durante la quale conversammo sia in italiano che in dialetto bergamasco.

Con mons. Loris Capovilla invece ho passato molto più tempo, specie dopo che egli si installò a Sotto il Monte, dando a tutti l’impressione, anche visiva, di essere l’erede naturale del “Papa Buono”.

Di lui conservo gli originali di una nutrita corrispondenza.

Ricordo anche che, appena fatto vescovo, lo accompagnai in macchina a Biella per far visita ad alcuni prelati, tra cui mio zio don Giulio, il rettore del Santuario di Oropa ed il vescovo di Biella.

(Dato che le ragioni della mia personale vicinanza alla famiglia Roncalli sarebbero di scarso interesse se esposte in questo contesto, le inserirò nell’Appendice.)


Ebbene, da queste frequentazioni ho tratto la netta impressione che tutto quanto di “progressista” Papa Roncalli possa aver fatto durante il suo breve pontificato dev’essergli stato consigliato naturaliter dal suo giovane segretario.

E non solo in ragione delle rispettive età.

Mons. Capovilla non era un pretino qualsiasi, tipo quello che successe a don Camillo nella fortunata serie cinematografica.

Dietro un aspetto fisico non imponente nascondeva una forte personalità.

So bene che, quando si parla di religione, bisogna mettere da parte le categorie politiche. Ciononostante sono sicuro che, se fosse stato un politico, avrebbe militato in un partito di sinistra.

Ne ho le prove.

Quando mia sorella Giuliana venne eletta al parlamento nelle fila della Margherita, mons. Capovilla le suggerì di ascoltare i consigli, non -come uno si aspettava- di Rosy Bindi o Sergio Mattarella, ma di Marco Boato, esponente di un partito più marcatamente di sinistra.

Del resto Boato era espressione di quell’ambiente sociologico veneto cui lo stesso Capovilla non deve essere stato totalmente estraneo in gioventù.

Quando invece andammo in visita (solo lui ed io) al vescovo di Biella (ed egli insistette perché io presenziassi al colloquio, in quanto -sosteneva- non aveva nulla da nascondere) egli non esitò a manifestare la sua avversione per il Ministro Giuseppe Pella (DC) che sapeva essere originario di Biella, ma che a suo avviso, sarebbe stato più idoneo a fare il Presidente della “San Vincenzo”.

Poi, quando fummo soli in macchina, riconobbe di aver espresso un giudizio troppo severo, ma solo perché -soggiunse- “magari Pella era un finanziatore occulto della Curia”.

Motivi di riservatezza mi impediscono di riferire gli ulteriori discorsi che facemmo in quella occasione e nelle successive.

Mi sembra tuttavia che gli episodi citati siano sufficienti per dimostrare il ruolo che il card. Capovilla ha certamente avuto nell’influenzare le pretese aperture a sinistra di Papa Roncalli, benché io, di queste pretese aperture, ne ricordi solo una:

l’udienza concessa a Rada, figlia di Krusciov, ed a suo marito Alexei.

Mi rendo anche conto che, all’occhio del critico (semplice fedele o teologo che sia), ciò che conta è la qualità della farina e non il sacco da cui proviene, ma, quale che sia il sacco, personalmente rimango dell’idea che nessuna delle degenerazioni che alcuni teologi vedono nel periodo postconciliare:

· sia imputabile a Papa Roncalli e, soprattutto,

· sia arrivata ai fedeli, prima che all’orizzonte apparisse la figura di papa Francesco.


Quindi: giù le mani da Roncalli!

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