Il fuoco di paglia del M5S
Se dovessi raccontare la storia del M5S alle mie nipotine la spiegherei nei termini che seguono.
C’era una volta un attore comico brillante che attraeva spettatori sia nei teatri che nelle piazze.
Si chiamava Beppe Grillo ed era cittadino di Genova.
Era sempre stato un ecologista, ma sul finire del secolo si innamorò della telematica.
Se ne innamorò a tal punto che un bel giorno decise di dar vita ad un movimento politico che mettesse insieme le due cose, cioè ecologia e scienza digitale.
Essendo diventato famoso come attore, il suo movimento ebbe largo ed immediato successo.
Mi riferisco al M5S che alle elezioni politiche del 2018 raccolse il consenso di un terzo degli elettori, benché, ad onor del vero, tale consenso si manifestasse solo in una parte del Paese (quella meno industrializzata) e fosse largamente influenzato da promesse elettorali che poco avevano a che fare con l’ecologia e la telematica.
Nei programmi del Movimento c’era infatti la proposta di abolire la povertà, mediante l’introduzione di un reddito “di cittadinanza”, basato su parametri puramente economici.
I fondi necessari per introdurre questo sussidio sarebbero stati reperiti, secondo Grillo, non da un aumento del Prodotto Interno Lordo (PIL), com’era logico aspettarsi, ma dalla sua diminuzione, attraverso la cosiddetta “decrescita felice”. Una specie di ritorno alla bucolica era preindustriale.
Coerente con questa posizione ideologica era la promessa di cancellare le grandi opere, tipo trafori transalpini (TAV) e submarini (TAP) e tutte le industrie suscettive di inquinare l’ambiente.
Poiché, a differenza degli altri partiti (per esempio il PCI), il neonato Movimento non disponeva di alcuna struttura territoriale (leggi sezioni), la scelta dei candidati al Parlamento nazionale ed alle istituzioni locali poteva avvenire esclusivamente attraverso l’uso (anch’esso nuovo) del computer, previa iscrizione ad una piattaforma digitale di diritto privato (Rousseau).
D’altronde era proprio lì, nel mondo della telematica, che egli aveva trovato il suo nuovo amore.
Questa predilezione per il digitale era accompagnata, in Grillo, da un profondo disprezzo per il Parlamento, di cui egli profetizzava la fine imminente.
Egli infatti riteneva che questa istituzione, in quanto espressione di democrazia rappresentativa e, quindi, mediata, stesse per essere soppiantata dalla democrazia diretta: quella dei click sul PC, che rende superflua la figura del parlamentare.
Rebus sic stantibus, i seguaci di Grillo erano persone che, avendo familiarità con il PC, si autocandidavano alle varie cariche pubbliche, inviando il proprio curriculum e sperando che qualcuno mettesse il loro nome nella shortlist dei candidati finali.
Purtroppo il metodo di scelta utilizzato (l’uso del PC) escludeva in partenza che al processo di selezione potessero partecipare persone mature che, benché estranee al mondo telematico, fossero in grado, con la loro esperienza lavorativa, di dare un significativo contributo all’ente di cui andavano a far parte.
E difatti anche coloro che nel 2018 furono eletti al parlamento nazionale erano quasi tutti giovani ed erano stati selezionati unicamente sulla base del loro curriculum scolastico, magari “infiorettato”, ma nel quale non appariva nessuna significativa esperienza di lavoro.
Si trattava, per molti di loro, di spedire a Rousseau lo stesso curriculum che inviavano a tutti gli altri possibili datori di lavoro, nella speranza che qualcuno offrisse loro un posto di lavoro in linea con il titolo di studio.
Né d’altra parte a Grillo interessava che i suoi candidati avessero maturato una qualsiasi esperienza di lavoro.
Infatti l’idea del fondatore del Movimento, decisamente insolita ma pienamente condivisa dal suo collaboratore e cofondatore (Gianroberto Casaleggio), era di dimostrare che anche degli sprovveduti, purché onesti, avrebbero potuto rappresentare degnamente gli interessi dei cittadini a tutti i livelli istituzionali.
Disgraziatamente, il successo riportato dai grillini alle ultime elezioni politiche (33 percento circa) fu tale che il presidente Mattarella, dopo mesi di tentennamenti, si vide costretto ad affidare a loro la guida del governo, seppure in coabitazione con altra forza politica.
Questo costituì, a mio avviso, un grave errore, ma le ragioni, essendo complesse e molteplici, le vedremo più avanti.
Sta di fatto che gli eletti del Movimento, pur essendo digiuni di politica, si trovarono di colpo, non solo ad occupare uno scranno in Parlamento (accanto a personaggi che invece vi avevano messi radici), ma anche a dover assumere posizioni di potere come membri del nascente esecutivo, mentre erano nati con il compito, molto meno oneroso, di fare opposizione.
Non solo essi non conoscevano i rappresentanti degli altri partiti, ma non si conoscevano neppure tra loro, dato che la loro candidatura era stata avanzata ed accettata “in remoto”, via computer.
Inutile dire che l’entrata in Parlamento di circa trecento persone, quasi tutte giovani e digiune di politica, ha rappresentato una svolta rivoluzionaria e lo sarebbe stata comunque, anche se quelle persone fossero rimaste all’opposizione, come è probabile che Grillo avesse ipotizzato.
Il suo movimento era talmente a corto di personale addestrato alla bisogna (del resto la stessa cosa era capitata a suo tempo alla Lega) che egli ha dovuto pescare il suo massimo rappresentante tra i non iscritti.
Mi riferisco al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che, abitando a Roma, ebbe la fortuna di entrare nel locale in cui si celebrava la vittoria elettorale del M5S e che, essendo la persona più titolata tra i festeggianti, uscì da quella stanza come Primo Ministro in pectore.
La fortuna non fu benigna solo con lui.
Lo fu anche con i suoi ministri e con i grillini che rimasero semplici deputati, perché la maggior parte di loro, entrando in Parlamento, si vide decuplicare il reddito da un giorno all’altro.
Senza contare tutti i fringe benefits che accompagnano il trattamento del deputato.
Né l’ossequio che i romani, per inveterata abitudine (pensiamo alle sedie gestatorie ed ai flabelli), riservano agli eletti (che Grillo chiamerebbe “elevati”), indipendentemente dai meriti individuali.
Infatti al ministro che viene dalla Val Brembana ed è abituato a viaggiare in treno vengono riservati gli stessi onori che vengono dedicati a chi è abituato a spostarsi in aereo, oppure con il proprio executive.
Onori che, nel caso dei ministri, comprendono un nutrito gruppo di guardie del corpo e costituiscono un notevole status symbol.
Era prevedibile che l’ingresso in Parlamento di tante persone così diverse dal profilo che l’opinione pubblica ha sempre assegnato al deputato generasse delle conseguenze importanti.
Il più significativo di questi effetti rimane a mio avviso quello che si verifica nella persona del deputato stesso e della sua famiglia.
Pensate per un momento a quello che succederebbe a noi stessi se, da un giorno all’altro, ci decuplicassero lo stipendio e se, per giunta, in qualità di ministro o sottosegretario, ci permettessero di raggiungere qualsiasi località italiana con l’aereo di Stato.
E’ evidente che a nessuno di noi verrebbe in mente di tornare alla situazione quo antea (quella dei 1500 euro al mese), salvo esserci costretto con la forza.
Tanto più che:
a) gli onori connessi alla carica finirebbero per solleticare il nostro ego individuale e farci credere di essere dei grandi statisti, come lo erano coloro che in passato occupavano il nostro posto ed il cui nome è poi passato alla storia;
b) il movimento che ci ha eletti non ha una ideologia così ferrea da non permettere un cambio di casacca.
Lo dimostra ampiamente il fatto che il Movimento si è alleato prima con la Destra e poi con la Sinistra, senza neppure cambiare Premier.
Poi ci sono gli effetti che l’ingresso in Parlamento del M5S ha provocato nel Parlamento stesso, nel governo e nel Paese.
Effetti che generalmente sono ritenuti negativi e che sono emersi in tutta la loro gravità allo scoppio dell’epidemia COVID-19, cioè proprio nel momento in cui il Paese avrebbe avuto bisogno di un governo con i controfiocchi. Una specie di war cabinet.
Stupisce sotto questo aspetto che il PD, pur essendo un partito molto più strutturato del M5S, abbia accettato, in seconda battuta, di condividere il potere con il Movimento (non a caso alcuni iscritti al partito si ribellarono), dopo che questo aveva avuto modo di dispiegare tutta la sua inadeguatezza nel corso della prima fase, quando era alleato della Lega.
Evidentemente prevalse, nel PD, la convinzione, peraltro mai nascosta, di essere l’unica forza titolata a governare il Paese, anche senza il consenso popolare.
Com’è noto, dopo il trionfo elettorale del 2018, il M5S ha perso continuamente terreno ed in questo momento (siamo nell’ottobre del 2020) sembra sul punto di scomparire.
Difatti, in tutte le elezioni (regionali ed europee) che si sono tenute dal 2018 ad oggi, esso ha sempre dimezzato i propri consensi, passando dall’originale 33% prima al 17% (elezioni europee del 2019) e poi all’attuale 9% (elezioni regionali del 2020).
Questo trend negativo del Movimento aggiunge forza al nostro ragionamento secondo cui, dopo il confuso esito elettorale del 2018, male ha fatto il Capo dello Stato a risolvere la crisi nel modo in cui l’ha fatto, anziché ricorrere a nuove elezioni.
Egli infatti ritenne, tra la sorpresa generale, di dover dar vita ad un governo basandosi solo sulla forza numerica dei gruppi parlamentari, senza verificarne la compatibilità ideologica e, soprattutto, la corrispondenza con la volontà popolare.
E’ vero che la Costituzione rende possibile leggere la volontà popolare attraverso la sua rappresentanza parlamentare, ma è fuori discussione che, quando la lettura non è agevole, è il principio che deve essere rispettato (La sovranità appartiene al popolo) e non la modalità con cui esso viene esercitato (…che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione).
Che poi, nel caso in esame, i dati elettorali non fossero di facile lettura mi pare assodato.
Sia nel primo caso (quando Mattarella impose, o permise, l’alleanza del M5S con la Lega), sia, anzi soprattutto, nel secondo caso (quando benedì l’alleanza del M5S con il PD).
Infatti, mentre nella prima fase fu fatta una coalizione “innaturale”, perché realizzata tra due forze che si erano sempre odiate (e difatti non tardarono a dividersi), nella seconda fase, all’incompatibilità ideologica si era aggiunta la distonia del Parlamento con l’elettorato.
Questa discrasia si era infatti chiaramente dimostrata in una lunga serie di elezioni (regionali ed europee) che si tennero tra il 2018 ed il 2019 (cioè prima del secondo governo Conte), ma di cui non si volle tener conto solo perché erano state svolte sotto un’etichetta diversa da quella di elezioni “politiche”, vale a dire per una questione puramente nominalistica.
Secondo l’interpretazione che ne danno le forze di sinistra (e, ahimè, anche alcuni “costituzionalisti”) la soluzione adottata dal Capo dello Stato per dare un governo al Paese, non solo era legittima, ma anche l’unica costituzionalmente possibile.
Non è vero. Per le seguenti ragioni:
1) Quando c’è distonia tra il sentimento popolare ed il Parlamento è evidente che il principio secondo cui la sovranità appartiene al popolo diventa una barzelletta, se il governo viene formato, o tenuto in piedi, in base alla consistenza dei gruppi parlamentari, anziché su quella del sentimento popolare quale viene liberamente espresso attraverso il voto.
Né si può dire che l’orientamento popolare espresso nelle elezioni tenute, tra il 2019 ed il 2020, sotto etichette diverse da quella di “politiche” non avesse alcun valore, perché, se è vero che l’esito delle consultazioni regionali potrebbe essere stato influenzato dalla personalità del candidato “governatore”, altrettanto non si può dire di quello delle elezioni europee.
Cosa c’è infatti di più intrinsecamente politico dell’esito di una consultazione elettorale “europea”, se non il nome?
Né si può dire altrettanto delle consultazioni regionali, quando il responso sia plurimo ed unidirezionale, come di fatto è stato.
Diversamente opinando si finisce per dare più importanza alla modalità di esercizio di un diritto (…che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione) che al principio stesso (La sovranità appartiene al popolo).
E’ solo nella nomotetica orientale e, segnatamente, nella tecnica normativa usata dall’Unione Sovietica, che la puntualizzazione prevale sul principio.
Infatti nella vecchia Costituzione sovietica si diceva sì che la libertà di stampa era garantita, ma subito dopo si precisava che, a tale scopo, il materiale necessario alla stampa veniva messo a disposizione delle associazioni di lavoratori, di fatto escludendo che la stampa fosse davvero libera per tutti.
Nella nomotetica occidentale invece il principio è sempre prevalso sulla puntualizzazione, che viene considerata a guisa di una semplice esemplificazione.
2) La scansione quinquennale prevista dall’art. 60 della Costituzione per le elezioni politiche non può essere invocata come un obbligo, non solo perché esistono deroghe precedenti, ma per il semplice fatto che, quando questa norma fu scritta (1947) non esistevano né le Regioni né l’Unione Europea, con il corollario delle loro leggi elettorali.
Tutte queste leggi, per fortuna o per sfortuna, si tengono in date diverse da quelle delle elezioni politiche e pertanto rappresentano altrettante spie del sentimento popolare.
Non sarebbe saggio tenerne conto?
Per tutte queste ragioni a me sembra che, se ora ci troviamo ad avere un governo nettamente inadatto alla bisogna, la responsabilità ricada esclusivamente sul Capo dello Stato.
E’ evidente che egli è stato vittima di cattivi consiglieri, interni o, più verosimilmente, esterni.
Per gli stessi motivi ritengo patetico il suo richiamo all’unità nazionale in questo momento di crisi.
Egli non può mandare in campo i giocatori più scarsi e poi, visti i guai che combinano, invocare il soccorso di quelli bravi, dopo averli umiliati tenendoli in panchina.