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  • Immagine del redattoreGiglio Reduzzi

La riforma della scuola (che nessuno farà)

Se davvero si vuole riformare la Scuola (come sarebbe ora e tempo di fare) occorre preliminarmente prendere due iniziative rivoluzionarie, che sarà dura far passare in Parlamento:

a) togliere valore legale ai diplomi di laurea (cioè la regola del tutti i titoli di studio sono uguali), onde permettere che chi si è laureato alla Bocconi senza lode possa essere assunto al posto di chi ha conseguito l’identico titolo di studio in un’università di minor prestigio magna cum laude,

b) che la selezione degli insegnanti avvenga sulla base di graduatorie regionali, ad evitare che i vincitori di cattedra debbano spostarsi a molti chilometri di distanza dalla loro casa e dal loro ambiente naturale, con tutte le implicazioni che queste dislocazioni comportano.


Mentre l’importanza della prima iniziativa mi pare auto-esplicativa, mi sembra utile ricordare che la seconda tende ad evitare che:

a) gli insegnanti del Sud siano costretti a cercare casa in zone caratterizzate da affitti elevati e maggior costo della spesa quotidiana, in tal modo sacrificando una parte significativa dello stipendio,

b) tali insegnanti siano incentivati a ridurre il più possibile la loro presenza nel luogo di lavoro, o addirittura a rinunciarvi, costringendo i presidi a nominare dei supplenti locali, a detrimento della continuità didattica e con aggravio dei costi d’esercizio.


Eliminata la parità giuridica dei diplomi di laurea e spostata la nomina degli insegnanti dal centro alla periferia, rimane l’esigenza, non da poco, di spostare il focus dall’insegnante all’alunno.

Finora lo Stato si è sempre e solo preoccupato di assecondare le esigenze dei docenti.

A quelle degli studenti non ci ha mai pensato nessuno.

Anche la scelta dei banchi singoli (dettata dalle necessità dell’ondata pandemica) si è rivelata un disastro, a motivo della demenziale richiesta di renderli mobili con l’aggiunta delle famose rotelle.

Nessuno infatti si è mai preoccupato di sapere quanto possa ragionevolmente entrare nella mente di un alunno tra le ore tredici e le quattordici, cioè durante la sesta ora consecutiva di insegnamento, visto che le lezioni iniziano alle otto di mattina.

Nei Paesi civili le sei ore quotidiane di insegnamento vengono spalmate sull’intera giornata: tre al mattino e tre al pomeriggio, cui si aggiunge il tempo necessario all’esercizio di uno sport.

Il tutto avviene tra le 9 del mattino e le 5 del pomeriggio, in perfetta sincronia con gli orari in uso nel mondo del lavoro.

Per cui anche i genitori che lavorano in fabbrica ne ricavano un beneficio.

Per non parlare del fatto che, facendo iniziare le lezioni alle 9 anziché alle 8 si risparmiano agli alunni le levatacce e si evita che, d’inverno, escano di casa con il buio.

E’ ovvio che, così facendo, la spesa complessiva aumenta notevolmente, ma è l’unico modo per riformare la scuola, se davvero si vuole migliorarla.

Sinora si sente solo dire che gli insegnanti italiani sono i meno pagati d’Europa, anche se, nel fare il paragone, si evita accuratamente di confrontare le ore effettivamente lavorate dalle due parti (che è l’unico modo serio di fare il paragone).

Il fatto è che in Italia l’insegnamento è considerato un lavoro part-time.

Non a caso quella di insegnare sta diventando una professione sempre più femminile.

Infatti, concentrando tutte le ore d’insegnamento al mattino, la donna che insegna ha l’intero pomeriggio libero, così il marito che lavora tutto il giorno in fabbrica ha la scusa buona per lasciare a lei l’onere di mandare avanti la famiglia.

Le misure sin qui descritte hanno solo valore preliminare.

Poi occorre por mano a tutte le altre.

Per esempio imponendo agli studenti di mostrare maggior rispetto per la scuola, sia nel modo di rapportarsi agli insegnanti che di vestirsi.

Stabilire norme per reprimere il dilagante fenomeno del bullismo.

Rivedere i programmi scolastici ed introdurre nuove discipline, tipo l’educazione civica.

Non cito l’educazione digitale, perché temo che in questo campo gli alunni (ahimè) ne sappiano più dei docenti.

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