Giglio Reduzzi
Riforma della Giustizia
Aggiornamento: 1 nov 2022
Spero che, nel riformare (finalmente) la giustizia, il nuovo governo vorrà tener presente, per la prima volta nella Storia, la grande differenza che esiste tra reati comuni e reati di mafia.
Un conto è sottrarre un orologio dal banco del gioielliere ed un conto è appiccare il fuoco alla sua porta perché si è rifiutato di pagare il pizzo.
Chi ha rubato l’orologio ha ceduto ad una tentazione ritenuta più forte di lui, chi ha bruciato la porta è vittima di una radicata ideologia.
Quest’ultimo può persino essere convinto, in cuor suo, di essere moralmente a posto e, l’indomani, andare in processione e reggere la statua della madonna.
Per lui non servono gli anni di prigione, ma, se mai, una rieducazione in stile cinese.
(Mi viene in mente il film di Bertolucci che racconta dell’ultimo imperatore cinese, fruttuosamente rieducato, a quanto pare.)
Essere mafioso significa condividere una certa mentalità che la permanenza nei normali istituti di pena può solo aggravare, non certo guarire.
E’ illusorio pensare che, trascorsi, poniamo, i tre anni di reclusione, il mafioso possa uscire dal carcere “guarito” e che, avendo pagato il suo debito con lo Stato, possa dedicarsi ad altra lecita attività e magari partecipare ad un pubblico concorso per poliziotti.
Personalmente nutro una certa diffidenza anche nei confronti di quei servitori dello Stato che, pur avendo superato in proprio il test della non mafiosità (e quindi essendo formalmente in regola), abbiano respirato aria di mafia in famiglia.
Cioè provengano da famiglie nelle quali essere mafiosi era considerato più motivo di vanto che di disonore. E spesso lo è ancora.
Il mio sospetto nasce considerando che:
di alcune famiglie di mafiosi si conoscono nome ed indirizzo, ma non se ne fa niente,
la latitanza dei massimi boss dura decenni.
Quindi è legittimo nutrire qualche sospetto anche nei confronti di chi è incaricato di sradicare il fenomeno.